L’AVARO con LELLO ARENA – CINE TEATRO MONTIGGIA – PALAU – LUNEDI 12 GENNAIO 2015
CeDAC
XXXV Circuito Teatrale Regionale Sardo
GIU’ LA MASCHERA
L’AVARO di Molière con Lello Arena
CineTeatro Montiggia di PalauÂ
lunedì 12 gennaio – ore 21
Bon Voyage Produzioni e Civit’Arte 2013
L’AVARO
di Jean-Baptiste Poquelin – in arte Molière
con Lello Arena
Fabrizio Vona e Francesco Di Trio
e con Adriana Follieri, Chiara Degani,
Eleonora Tiberia, Fabrizio Bordignon, Enzo Mirone
musiche Paolo Vivaldi
scenografie Luigi Ferrigno
costumi Maria Freitas
regia di Claudio Di Palma
Lo spettacolo
L’avaro, insieme a Tartufo, a Il malato immaginario, a Il borghese gentiluomo, è una delle più celebri commedie di Molière. Scritta nel 1668, è in prosa, e al debutto non ebbe un grandioso successo anche se oggi è dai più considera la migliore delle commedie di Molière. Di sicuro è una pièce straordinariamente completa e divertente e contiene tutti gli ingredienti, i motivi, gli intrecci, le scene farsesche, che rendono esilarante uno spetacolo comico. I motivi comici del teatro classico in fondo sono sempre gli stessi: il difetto maniacale del protagonista (in questo caso l’avarizia), la servitù birbantesca ed intrigante, gli amori contrastati dei giovani, la rivalità in amore tra i protagonisti (qui il padre ed il figlio), i malintesi, l’agnizione finale che risolve come un deus ex machina l’intrigo generale… In genere, su uno, su due di questi motivi, i grandi autori classici costruiscono le loro commedie: qui, invece, ci sono proprio tutti. Ma questa ridondanza di temi non appesantisce affatto la commedia: Molière è uomo di teatro troppo navigato per lasciarsi sopraffare da una piena di motivi. Come un perfetto direttore d’orchestra, Molière sa dosare equilibratamente i molti strumenti di cui dispone e ne deriva una commedia godibilissima e nient’affatto enfatica.
L’autore
Tra i più grandi commediografi di tutti i tempi, Molière (nome d’arte di Jean-Baptiste Poquelin) nacque a Parigi nel 1622 da un’agiata famiglia borghese. Per volontà del padre, artigiano e valletto del re, ricevette un’educazione umanistica di buon livello presso il Collegio gesuita di Clermont. Diventato avvocato, abbandonò presto la professione per dedicarsi interamente al teatro.
Forse introdotto all’arte teatrale da una giovane attrice, Madeleine Béjart, fondò nel 1643 l’Illustre Théâtre, una compagnia con una decina di attori. Abbandonata Parigi per difficoltà finanziarie, la coppia si inserì in una compagnia di provincia, della quale Molière divenne autore e capocomico.Â
Nel 1658 la compagnia tornò a Parigi, dove ottenne la protezione del fratello del re, Monsieur, da cui la nuova denominazione di Troupe de Monsieur. Invitata a corte, la Troupe rappresentò alla presenza di Luigi XIV il Nicomede di Corneille, seguito da una farsa di Molière intitolata Il dottore innamorato. L’anno seguente e quello dopo, nella sala del Petit-Bourbon, andarono in scena le commedie Le preziose ridicole e Sganarello o il cornuto immaginario, entrambe coronate da successo. Nel 1661 la compagnia, ormai affermata, ottenne come sede il teatro del PalaisRoyal; seguirono anni di successi – non senza polemiche, come nel caso del Tartufo – in cui Molière scrisse testi immortali come La scuola delle mogli, e La critica alla scuola delle mogli, L’improvvisazione di Versailles e La principessa d’Elide, e soprattutto Il Tartufo, Don Giovanni o il convitato di pietra, Il misantropo, Anfitrione, George Dandin o il marito confuso, L’avaro, Il borghese gentiluomo, Le furberie di Scapino, Le intellettuali, e Il malato immaginario.Â
Colto da malore durante le recite del Malato immaginario, Molère morì dopo poche ore, nel 1673.
Note al testo
Quando ci si appresta a preparare l’ ennesimo allestimento di una commedia classica è sempre lecito porsi una domanda: Quale perdurante valore consente ad alcune scritture teatrali di attraversare i tempi incontrando e provocando in modo continuo e sempre nuovo l’interesse di pubblico ed artisti? Nel caso specifico de L’avaro di Moliere ci si chiede anche cosa permetta all’ aridità spirituale e materiale di Arpagone di essere ancora oggi tanto leggibile e fruibile; cosa le abbia consentito di attraversare con imperturbabile credibilità quelle trasformazioni radicali che in circa tre secoli hanno caratterizzato la vita pubblica e privata degli uomini. E’ certo che l’artificio drammaturgico molieriano sia informato di caratteri espressivi dalla efficacia oggettiva e che questo rappresenti un motivo fondante e sufficiente che giustifica le riproposizioni.Â
Esiste, però, un altro valore altrettanto incontrovertibile che fa da contrappunto alla meticolosa tecnica di punteggiatura teatrale di Molière. E’ quello evidenziato e rappresentato da un mondo intimamente corrotto di straordinaria e persistente contemporaneità che si articola intorno al vizio capitale dell’avarizia. Un mondo che Molière anima di complottismi, di ipocrisie, di opportunismi, di raggiri, di arrivismi, e che abita di fingitori, spreconi, faccendieri, mediatrici, sensali di fronte ai quali l’avaro Arpagone si erge quasi come figura consapevole e sinceramente reo-confessa, pervasa, infondo, da una profonda onestà intellettuale. Lui è naturalmente complementare a tutti gli altri, il suo vizio lo conduce ad una solitudine apparentemente compiaciuta e strafottente, ma che lo costringe a perdere poi quasi più di quanto abbia cercato di trattenere. E’ incapace di donare il suo tempo e se stesso, valuterebbe il dono come una perdita e la perdita è spreco e lui è un economo conservatore, non può sprecare. E’ un posseduto dal denaro, accumula ma non usa, diffida, sospetta, accusa, impone, capitola e subdolamente si riabilita, la sua insana fragilità lo destina al drammatico succedersi di buffo e tragico.Â
Una ritmica recitativa incalzante, mira all’esasperazione del vertiginoso virtuosismo teatrale del testo, la ricerca di una riproducibilità di passioni vere, ancorché viziate, tende a conferire caratteri di ulteriore credibilità agli stilemi dialogici dell’epoca, la individuazione di uno spazio irreale dove abbia ragione e luogo la storia ne segnala la temporalità . I personaggi sembrano addirittura attraversare le epoche (come se la tela si aprisse nel ‘600 e calasse sul 2000) in una successione di stili che si snoda nell’immutabilità della trama originaria. Intorno un perimetro, quasi museale, di teche che custodiscono una nutrita e cangiante collezione di sedie (il collezionismo come altra declinazione dell’avarizia: ossessione del possedere?). Sedie di epoche diverse in cui è possibile leggere il segno del potere, ma anche quello dell’assestamento e, conseguentemente, dell’impigrimento e della devitalizzazione. Simbolo e segno, insomma, di quella depressione dissimulata di Arpagone che gioca, combatte e si dimena con indomito furore e spaesata dabbenaggine contro le maschere della borghesia e contro i fantasmi della propria psiche.
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